sabato 20 luglio 2013

PaTreVe e città metropolitane, un progetto centralistico e autoritario


dal governastro di larghe intese si prepara una offensiva centralistica e autoritaria sul governo locale

Si fa un gran parlare, nel dibattito pubblico locale, del progetto della città metropolitana PaTreVe, visto come il baluardo della modernità contro i conservatorismi. Se ne fa un gran parlare che forse è un troppo parlare. Troppo per non pensare che, forse, tante dichiarazioni entusiastiche a favore del nuovo ente nascondano la difficoltà di articolare proposte e idee per fronteggiare la crisi, e quindi ce la si prenda con il sistema istituzionale per sviare l’attenzione critica dagli attori politici che quelle istituzioni hanno governato. Con lo stesso meccanismo diversivo, a livello nazionale si invoca la necessità di una riforma delle istituzioni e della Costituzione, come se risiedesse lì l’origine delle difficoltà del paese e non invece nell’utilizzo che della Costituzione e delle istituzioni hanno fatto le classi politiche che hanno governato negli ultimi anni.
Il Governo Monti aveva imposto per decreto, all'interno del “SalvaItalia” e della “Spending Review”, una riforma delle Province e delle città metropolitane che fissava anche delle scadenze temporali precise. La riforma prevedeva la diminuzione del numero di province per accorpamento, la eliminazione degli assessori e delle elezioni provinciali (le province sarebbero diventate enti di secondo livello ma non sarebbero state abolite), la sostituzione delle province relative ai 10 maggiori comuni italiani (all’incirca) con le rispettive città metropolitane a partire dal 1 gennaio 2014. La Corte Costituzionale ha dichiarato incostituzionale, lo scorso 3 luglio, tutta la normativa introdotta in materia da Monti e dalla sua maggioranza, perché è un utilizzo illegittimo dello strumento del decreto d’urgenza quello di inserirvi delle riforme istituzionali.
Di fronte all’annullamento della riforma Monti, il Governo Letta non ha inteso riproporre la riforma del governo Monti utilizzando strumenti giuridicamente corretti, ma ha cambiato impostazione e ha presentato un disegno di legge costituzionale per eliminare la parola “Provincia” dall’intera Costituzione, e per eliminare anche la città metropolitana dall’art. 114. In questo modo si vuol stabilire un nuovo ordinamento degli enti territoriali della Repubblica, che sarebbero solo Comuni e Regioni. Il Governo entro luglio presenterà inoltre un disegno di legge, predisposto dal ministro per gli Affari Regionali Del Rio, nel quale fisserà tappe e modalità per la costituzione delle città metropolitane, con l'obiettivo di farle partire a metà 2014. Secondo quanto dichiarato alla stampa dal ministro, le città metropolitane non dovranno prevedere alcuna elezione da parte dei cittadini e il sindaco della città sarà anche il sindaco della città metropolitana. E’ la stessa posizione che ha sempre auspicato il sindaco Orsoni, che si è spinto a dire “la città metropolitana non vuole rappresentare la popolazione, non sarà una Provincia bis, per cui non avrà bisogno di alcuna elezione diretta, bensì si candida ad esercitare delle funzioni oggi in capo ai singoli Comuni”. (Corriere del Veneto, 9 luglio 2013). Diversa la posizione del Sindaco di Milano Pisapia, che ha dichiarato di non avere alcuna pretesa di fare il sindaco della città metropolitana e ritiene necessario che la scelta spetti ai cittadini tramite elezioni. La questione non è di poco conto, perché tocca il punto centrale della democrazia e della partecipazione della cittadinanza alle scelte strategiche della comunità in cui vive e opera. La costituzione di un “governo” della città metropolitana che decide sull’uso del territorio, sui servizi pubblici, sulle infrastrutture, sui trasporti e sullo sviluppo economico di tre province, non possa non avere una legittimazione democratica diretta, attraverso elezioni, e non attraverso la nomina da parte dei sindaci, eletti per altre funzioni e su altri programmi elettorali, e con sistemi elettorali e dunque livelli di rappresentatività non omogenei. Se guardiamo alle esperienze che già esistono, e sono tante, di enti e consorzi di secondo livello, vediamo come, al di là dei risultati positivi o negativi conseguiti nel perseguimento delle loro finalità, questi enti operano all’oscuro dell’opinione pubblica, senza un dibattito democratico aperto, senza una discussione pubblica sulle scelte operate, senza trasparenza nell’affidamento degli incarichi e dei compensi. Le scelte di questi enti, a partire dalla formazione delle maggioranze e delle minoranze, avvengono nelle sedi dei maggiori partiti che organizzano i sindaci in cordate politicamente omogenee. Prendiamo ad esempio il gruppo Ascopiave, una holding partecipata da 93 comuni, il cui consiglio di amministrazione è frutto di un accordo tutto politico tra Lega, che ha la maggioranza dei sindaci, e PD (il PDL è stato escluso da un patto fra le segreterie provinciali). Qualcuno può spiegare come un singolo cittadino possa essere informato, tantomeno partecipare o influire, sulla gestione di questa società, senza diventare sindaco ? Ascopiave ha competenza sulla distribuzione del gas, è una società di diritto privato quotata in borsa e opera sul mercato (grosso modo). Ma fatte le opportune distinzioni, se questo tipo di governance lo estendiamo ad un ente che avrebbe competenza su: dove fare le strade e i ponti, dove fare le scuole superiori, quali aziende incentivare e quali no, dove costruire e dove no, dove localizzare le zone produttive e dove porre vincoli di tutela ambientale, quali linee e quali mezzi di trasporto pubblico attivare, come e dove organizzare la raccolta dei rifiuti, la distribuzione di acqua, e via dicendo, dove va a finire il carattere democratico dell’organizzazione degli enti locali ?
L’altro tema da chiarire è quello della delimitazione territoriale della città metropolitana; è piuttosto evidente che l’esigenza di forme di governo innovative per le realtà metropolitane nasce dall’esigenza di dare una regia unitaria alle conurbazioni che si sono andate realizzando attorno a grandi città. E’ facilmente verificabile come attorno a grandi realtà comunali si sia realizzato un continuum urbanistico che rende impossibile, in assenza di apposita cartellonistica, realizzare dove finisca un confine comunale e ne inizi un altro. La cintura urbana si alimenta di uno scambio continuo di spostamenti e di relazioni economiche, commerciali, culturali e lavorative, che la frammentazione amministrativa non riesce a governare efficacemente. I criteri per circoscrivere puntualmente l’area caratterizzata dal carattere metropolitano possono essere i più diversi, e difatti non esiste ad oggi un criterio universalmente riconosciuto. Quello che è certo è che difficilmente si può comprendere come un criterio per la definizione del perimetro della città metropolitana possa essere quello dei confini amministrativi della Provincia di riferimento del comune centrale. Eppure questo prevedeva la riforma Monti e questo pare che molti vorrebbero fosse previsto dal provvedimento governativo. Nel caso della Patreve, la città metropolitana dovrebbe quindi coincidere con i confini delle tre province di Venezia Padova Treviso. Se si assume che la città metropolitana coincida con i confini della provincia, quello che si vuol realizzare è dunque un nuovo ente di governo di area vasta, una replica delle province deprivate del loro carattere elettivo e rappresentativo. Sarebbe intellettualmente onesto, allora, non chiamarle “città”.
Le precedenti previsioni normative sulle città metropolitane, dalle legge 142/1990 al dlgs 267/2000 alla legge 42/2009, prevedevano dei meccanismi di perimetrazione delle città amministrative che partivano dalle volontà espresse di comuni provincia e regione. Un meccanismo che, anche se non è riuscito ad avviarsi in nessuna realtà, certamente va ribadito come il più razionale, oltreché democratico. La scelta è tra un sistema impositivo, autoritario, centralistico, top-down, che impone a tutte le realtà le stesse scadenze e le stesse modalità, e un sistema invece che parta dal basso, bottom-up, democratico e partecipativo.


In definitiva, il governo Letta continua l'atteggiamento superficiale, frettoloso e propagandistico proprio del suo predecessore nell'affrontare temi, come il riordino delle istituzioni della Repubblica Italiana, che avrebbero bisogno di ben altro spessore di approfondimento e discussione. E' auspicabile che il governastro di larghe intese cessi al più presto di produrre paralisi sulle cose urgenti e sbrigatività sulle riforme da meditare, e consenta un ritorno alla normale democrazia parlamentare. Ma, visto che così purtroppo non pare sarà a breve, bisogna attrezzarsi a respingere l'offensiva di stampo autoritario che il governastro Letta vuole muovere sul fronte del governo locale.

Luca de Marco 

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